martedì 31 maggio 2016

Le ragazze in Croce



Le donne sono un secolo avanti rispetto agli uomini. Sono cacciatrici, osano avventurarsi nell’ignoto con leggerezza e senso della sfida.
Il maschio è terrorizzato dall’indipendenza femminile. Persiste a sognare la donna come non è più e come, in verità, non è stata mai.
Per un maschio irrisolto la donna è la Madre Eterna. Ritiene che a lui solo sia concesso il libero arbitrio del Bene e del Male. La Questura Maschile è l’unica autorizzata a rilasciare la relativa patente. O sei Madre (mia) o sei troia (di tutti). Se sei mia devi essere entrambe: prima provocante e immediatamente dopo rassicurante. Il maschio è spaventato, la donna per nulla. Per spaventare una donna, il maschio deve violentarla o ucciderla.
Da un pezzo le donne si sono sottratte al giogo delle proiezioni maschili. Viaggiano da sole, con un vestito d’estate e una valigia leggera; se il compagno diventa un bagaglio ingombrante, lo mollano per strada, vanno avanti senza o ne scelgono un altro.
Sono madri per i loro figli non per i loro mariti.
Il dolore che il rifiuto delle donne provoca nei maschi poco evoluti è lancinante perché risuona nel loro Dna come se “non ti voglio più” l’avesse detto la Mamma Eterna, la Madonna dei Maschi, non Sara, non Donatella, non Maria Luisa o Federica, donne vere, di carne e anima, che essi hanno conosciuto male e amato poco, perché le hanno trasfigurate in qualcosa d’immenso, che non le riguardava. Era il lato femminile persecutorio dei loro "ego" irrisolti.
La terribile immagine di Sara arsa viva, è il rito finale del maschio primitivo, il Colosseo del maschile: se non sei più mia, ti brucio e ti sacralizzo. Piuttosto che riconoscerti come donna libera e indipendente, ti trasformo in martire e santa, così che l’immagine che ho di te, di Madre Eterna, resti per sempre inviolata.
Gli atti criminali contro le donne aumentano via via che il femminile conquista spazi di libertà sempre maggiori.
Al di là della riduzione in carcere di questi assassini che cosa possiamo fare?
In famiglia e a scuola dobbiamo trasmettere ai bambini il lato meraviglioso del Sé, che nei maschi corrisponde al riconoscimento del femminile nella propria anima. Ad accoglierlo come una festa e non più come un’ombra o una vergogna, perché il femminile è la madre, non “nostra”, ma di tutte le emozioni, della creatività, della più selvaggia e feconda fantasia. Senza il suo influsso temperante, l’anima-Padre, regno della ragione, della saggezza, del discernimento, rischia di degenerare sul versante guerrafondaio, dell’imperio e della forza bruta.
(A Sara, con amore infinito).

sabato 28 maggio 2016

Paolo Borsellino è indignato

Paolo Borsellino

28 maggio 1992:
il Ministro degli Interni, Vincenzo Scotti, 
                        candida Borsellino alla Superprocura voluta da Falcone.
                                           Paolo Borsellino è indignato!

Lettera al Ministro degli Interni Vincenzo Scotti Domenica 31 maggio 1992

Onorevole signor ministro,
mi consenta di rispondere all’invito da Lei inaspettatamente rivoltomi nel corso della riunione per la presentazione del libro di Pino Arlacchi. I sentimenti della lunga amicizia che mi hanno legato a Giovanni Falcone mi renderebbero massimamente afflittiva l’eventuale assunzione dell’ufficio al quale non avrei potuto aspirare se egli fosse rimasto in vita. La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce, infatti, di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento.
Le motivazioni addotte da quanti sollecitano la mia candidatura alla Direzione nazionale antimafia mi lusingano, ma non possono tradursi in presunzioni che potrebbero essere contraddette da requisiti posseduti da altri aspiranti a detto ufficio, specialmente se fossero riaperti i termini del concorso.
Molti valorosissimi colleghi, invero, non posero domanda perché ritennero Giovanni Falcone il naturale destinatario dell’incarico, ovvero si considerarono non legittimati a proporla per ragioni poi superate dal Consiglio superiore della magistratura. Per quanto a me attiene, le suesposte riflessioni, cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata, in una Procura della Repubblica che è sicuramente quella più direttamente ed aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità mafiosa.
Lascio ovviamente a Lei, onorevole signor ministro, ogni decisione relativa all’eventuale conoscenza da dare a terzi delle mie deliberazioni e di questa mia lettera. RingraziandoLa sentitamente Paolo E. Borsellino


Lascia al ministro la libertà di diffondere la sua decisione. La lettera, però, resta riservata. Commentando le frasi del Ministro, Borsellino affermò: «è come un osso gettato ai cani!».

Il rimpianto, Don Milani

Barbiana


Alle elementari lo Stato mi offrì una scuola di seconda categoria. Cinque classi in un’aula sola. Un quinto della scuola cui avevo diritto. È il sistema che adoprano in America per creare le differenze tra bianchi e neri. Scuola peggiore ai poveri fin da piccini.
Finite le elementari avevo diritto ad altri tre anni di scuola. Anzi la Costituzione dice che avevo l’obbligo di andarci. Ma a Vicchio non c’era ancora scuola media. Andare a Borgo era un’impresa. Chi ci s’era provato aveva speso un monte di soldi e poi era stato respinto come un cane.
Ai miei poi la maestra aveva detto che non sprecassero soldi: «Mandatelo nel campo. Non è adatto per studiare».
Il babbo non le rispose. Dentro di sè pensava: «Se si stesse di casa a Barbiana sarebbe adatto».



L'ingresso alla cucina della canonica di Barbiana

A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno. Nessuno era «negato per gli studi».
Ma noi eravamo di un altro popolo e lontani. Il babbo stava per arrendersi. Poi seppe che ci andava anche un ragazzo di S. Martino. Allora si fece coraggio e andò a sentire. Quando tornò vidi che m’aveva comprato una pila per la sera, un gavettino per la minestra e gli stivaloni di gomma per la neve.
Il primo giorno mi accompagnò lui. Ci si mise due ore perché ci facevamo strada col pennato e la falce. Poi imparai a farcela in poco più di un’ora. Passavo vicino a due case sole. Coi vetri rotti, abbandonate da poco. A tratti mi mettevo a correre per una vipera o per un pazzo che viveva solo alla Rocca e mi gridava di lontano. Avevo undici anni. Lei sarebbe morta di paura.
Vede? Ognuno ha le sue timidezze. Siamo pari dunque. Ma solo se ognuno sta a casa sua. O se lei avesse bisogno di dar gli esami da noi. Ma lei non ne ha bisogno.



 Barbiana, gruppo classe Primi allievi


 Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. D'ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io.
La vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare. Però chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti. Non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica.
Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva una polemica su questo punto.


Don Milani e la scuola di Barbiana

Un professorone disse: «Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico…»
Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline. Finalmente andò via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: «La scuola sarà sempre meglio della merda».
Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini son pronti a sottoscriverla. Che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi. Noi contadini non ci avete interrogati. Ma siamo un miliardo e novecento milioni. Sei ragazzi su dieci la pensano esattamente come Lucio. Degli altri quattro non si sa. Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi. L’anno dopo ero maestro. Cioè lo ero tre mezze giornate la settimana. Insegnavo geografia matematica e francese alla prima media.
Per scorrere un atlante o spiegare le frazioni non occorre la laurea. Se sbagliavo qualcosa poco male. Era un sollievo per i ragazzi. Si cercava insieme. Le ore passavano serene senza paura e senza soggezione. Lei non sa fare scuola come me.
Poi insegnando imparavo tante cose. Per esempio ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.
Dall’avarizia non ero mica vaccinato. Sotto gli esami avevo voglia di mandare al diavolo i piccoli e studiare per me. Ero un ragazzo come i vostri, ma lassù non lo potevo confessare né agli altri né a me stesso. Mi toccava esser generoso anche quando non ero. A voi vi parrà poco. Ma coi vostri ragazzi fate meno. Non gli chiedete nulla. Li invitate soltanto a farsi strada.

 
Barbiana – La classe

(Don Lorenzo Milani e i ragazzi della sua scuola, Lettera a una professoressa, 1967)