Ad ogni passaggio elettorale ciò che emerge è la
distanza che separa le istituzioni dalla gente. Che sono la pelle e i muscoli,
di quelle istituzioni. Il cuore.
Voltiamo le spalle. Perché non crediamo più in ciò
che promettono, stancamente, da ormai troppo tempo. Peggio, non comprendiamo
ciò che dicono. La nostra democrazia tradita è diventata un dialogo
tra sordomuti, che non hanno il coraggio, l’umiltà, la voglia, di guardarsi in
faccia.
Perché quel popolo di invisibili sempre più visibile non è, per
l’appunto, una sola voce e un volto solo. E’ la somma inestricabile di tante
singole debolezze e solitudini. E’ la storia di donne e di uomini che sono così
stanchi delle parole d’ordine violente e infantili di questa politica che,
semplicemente, staccano la spina. Togliendo corrente alla democrazia. A tutto
vantaggio, in un cortocircuito logico, di quelle fonti fossili tossiche che
hanno così campo libero per inquinare la scena pubblica.
Sono vigliacchi, a volte disonesti, più banalmente
pigri. Indaffarati ad alzar la voce nascondendosi di volta in volta dietro il
paravento di punti percentuali che si gonfiano con l’inganno a seconda di come
vengono letti. Nel paese dei punti di vista dove tutto, e il suo contrario,
diventa possibile. E a forza di denigrare la credibilità hanno
dilapidato un patrimonio che credevano inesauribile di identità e appartenenza,
oggi ridotto al nulla.
Ci sono loro che fanno politica e c’è chi vive di
politica. Lecitamente o meno. E poi ci siamo noi, quel pezzo d’Italia sempre più ampio che
con la politica non intende aver più niente a che fare. Perché non la capisce,
non ne riconosce il senso e l’utilità. L’autorità. Ci sono pezzi d’Italia che
ce la fanno da soli o che pur arrancando preferiscono comunque starsene altrove a dispetto di chi intorno semina un campo pieno di erbacce e
parassiti, un modello di sviluppo ignobile che castra il dialogo e affligge il
confronto. Pare che il senso ultimo delle cose sia quello di farcela sullo
sfacelo altrui. Vincere, anzi, stravincere, umiliando il prossimo in un gioco
al massacro che poi travolge sempre gli ultimi, guarda caso. Che a forza di
tagli alle risorse e inefficienze di varia natura non hanno più una scialuppa
di welfare state a cui aggrapparsi.
Dentro a quel mondo, dentro a quei mondi, dovremmo
allora avere il coraggio e la forza di andare. Perché il paese non lo si cambia
nello studio di Bruno Vespa o nelle stanze ovattate di un potere ormai sterile.
Non lo si cambia nemmeno godendo delle sconfitte del partito avverso. Sembrano
bambini un po’ isterici e molto viziati, che
trascinano il tempo a guardarsi l’ombelico e a litigarsi l’ultimo modello di robot
multitasking.
E allora è là che dovreste andare. Uscire dal palazzo,
dalle vostre stanze e dalle vostre logiche, e ricominciare altrove. Restituire un
senso alla politica ed una dignità fondata sulle azioni concrete. Non più
promesse, slogan, propaganda. Ma cose da fare e persone con cui parlare.
Alleggerire, se ne sarete capaci, il peso di vite insostenibili, diventando al
contempo megafoni di esperienze di successo.
Perché non esiste un partito dell’astensione che dovete rappresentare, ma una montagna di gente che bisogna far uscire
dall’ombra. La domanda non è chiedersi cosa possiamo fare
per noi. Ma cosa noi, e loro, potete fare insieme per cambiare questo paese
che sta andando a rotoli. Dove si sbriciolano i diritti e si sgretola il
futuro. Perché ci sia un’altra opportunità. Perché c’è sempre un’altra occasione.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.