mercoledì 6 luglio 2016

Politica e vecchi merletti



Ad ogni passaggio elettorale ciò che emerge è la distanza che separa le istituzioni dalla gente. Che sono la pelle e i muscoli, di quelle istituzioni. Il cuore.
Voltiamo le spalle. Perché non crediamo più in ciò che promettono, stancamente, da ormai troppo tempo. Peggio, non comprendiamo ciò che dicono. La nostra democrazia tradita è diventata un dialogo tra sordomuti, che non hanno il coraggio, l’umiltà, la voglia, di guardarsi in faccia.
Perché quel popolo di invisibili sempre più visibile non è, per l’appunto, una sola voce e un volto solo. E’ la somma inestricabile di tante singole debolezze e solitudini. E’ la storia di donne e di uomini che sono così stanchi delle parole d’ordine violente e infantili di questa politica che, semplicemente, staccano la spina. Togliendo corrente alla democrazia. A tutto vantaggio, in un cortocircuito logico, di quelle fonti fossili tossiche che hanno così campo libero per inquinare la scena pubblica.
Sono vigliacchi, a volte disonesti, più banalmente pigri. Indaffarati ad alzar la voce nascondendosi di volta in volta dietro il paravento di punti percentuali che si gonfiano con l’inganno a seconda di come vengono letti. Nel paese dei punti di vista dove tutto, e il suo contrario, diventa possibile. E a forza di denigrare la credibilità hanno dilapidato un patrimonio che credevano inesauribile di identità e appartenenza, oggi ridotto al nulla.
Ci sono loro che fanno politica e c’è chi vive di politica. Lecitamente o meno. E poi ci siamo noi, quel pezzo d’Italia sempre più ampio che con la politica non intende aver più niente a che fare. Perché non la capisce, non ne riconosce il senso e l’utilità. L’autorità. Ci sono pezzi d’Italia che ce la fanno da soli o che pur arrancando preferiscono comunque starsene altrove a dispetto di chi intorno semina un campo pieno di erbacce e parassiti, un modello di sviluppo ignobile che castra il dialogo e affligge il confronto. Pare che il senso ultimo delle cose sia quello di farcela sullo sfacelo altrui. Vincere, anzi, stravincere, umiliando il prossimo in un gioco al massacro che poi travolge sempre gli ultimi, guarda caso. Che a forza di tagli alle risorse e inefficienze di varia natura non hanno più una scialuppa di welfare state a cui aggrapparsi.
Dentro a quel mondo, dentro a quei mondi, dovremmo allora avere il coraggio e la forza di andare. Perché il paese non lo si cambia nello studio di Bruno Vespa o nelle stanze ovattate di un potere ormai sterile. Non lo si cambia nemmeno godendo delle sconfitte del partito avverso. Sembrano bambini  un po’ isterici e molto viziati, che trascinano il tempo a guardarsi l’ombelico e a litigarsi l’ultimo modello di robot multitasking.
E allora è là che dovreste andare. Uscire dal palazzo, dalle vostre stanze e dalle vostre logiche, e ricominciare altrove. Restituire un senso alla politica ed una dignità fondata sulle azioni concrete. Non più promesse, slogan, propaganda. Ma cose da fare e persone con cui parlare. Alleggerire, se ne sarete capaci, il peso di vite insostenibili, diventando al contempo megafoni di esperienze di successo.
Perché non esiste un partito dell’astensione che dovete rappresentare, ma una montagna di gente che bisogna far uscire dall’ombra. La domanda non è chiedersi cosa possiamo fare per noi. Ma cosa noi, e loro, potete fare insieme per cambiare questo paese che sta andando a rotoli. Dove si sbriciolano i diritti e si sgretola il futuro. Perché ci sia un’altra opportunità. Perché c’è sempre un’altra occasione.

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