Alle 3:31
della notte del 6 aprile chissà quante persone stavano dormendo.
Chissà quante stavano sognando, e che cosa.
E quante ancora, stavano invece aspettando che quel pensiero che impediva il sonno, scomparisse alfine dalla mente.
Qualcuno stava dando la poppata al proprio figlio.
Qualcun’altro, invece, stava addirittura divenendo genitore, in una sala parto d’ospedale.
Qualcun’altra, invece, proprio in quel momento accarezzava il suo pancione, domandandosi il colore degli occhi della creatura che dormiva dentro di lei.
Di sicuro c’era chi stava tornando a casa dopo aver fatto tardi con gli amici, ignaro di trovare un genitore sveglio ad aspettarlo.
Altri ancora stavano chattando oppure studiando o ancora fumando, affacciati alla finestra con le stelle negli occhi e una camomilla sul fuoco.
Qualcuno stava persino morendo, quella notte.
La terra no.
La terra non faceva niente di tutto questo.
La terra stava trattenendo il respiro, in quegli ultimi 60 secondi della vita.
Il respiro si trattiene per far passare il singhiozzo, per vedere quanto possiamo fare a meno dell’aria, per gonfiare il petto.
Ma si trattiene anche per poter urlare più forte, per poter gridare più alto, per poter spalancare la bocca.
E prima di tutto questo, il silenzio.
Un silenzio che finge normalità, ma che è invece l’orlo del precipizio. L’orlo di una spaccatura lunga chilometri, profonda chilometri, che parte da chissà dove. Figlia magari di un movimento cominciato anni, decenni, secoli prima e che solo allora, in quel preciso attimo, è giunto a
compimento.
Chissà se si può sentire, il rumore del silenzio.
Il rumore di una crepa sotterranea che dà il via all’inferno.
Chissà se si può sentire, il rumore dell’attesa finita.
Chissà quante stavano sognando, e che cosa.
E quante ancora, stavano invece aspettando che quel pensiero che impediva il sonno, scomparisse alfine dalla mente.
Qualcuno stava dando la poppata al proprio figlio.
Qualcun’altro, invece, stava addirittura divenendo genitore, in una sala parto d’ospedale.
Qualcun’altra, invece, proprio in quel momento accarezzava il suo pancione, domandandosi il colore degli occhi della creatura che dormiva dentro di lei.
Di sicuro c’era chi stava tornando a casa dopo aver fatto tardi con gli amici, ignaro di trovare un genitore sveglio ad aspettarlo.
Altri ancora stavano chattando oppure studiando o ancora fumando, affacciati alla finestra con le stelle negli occhi e una camomilla sul fuoco.
Qualcuno stava persino morendo, quella notte.
La terra no.
La terra non faceva niente di tutto questo.
La terra stava trattenendo il respiro, in quegli ultimi 60 secondi della vita.
Il respiro si trattiene per far passare il singhiozzo, per vedere quanto possiamo fare a meno dell’aria, per gonfiare il petto.
Ma si trattiene anche per poter urlare più forte, per poter gridare più alto, per poter spalancare la bocca.
E prima di tutto questo, il silenzio.
Un silenzio che finge normalità, ma che è invece l’orlo del precipizio. L’orlo di una spaccatura lunga chilometri, profonda chilometri, che parte da chissà dove. Figlia magari di un movimento cominciato anni, decenni, secoli prima e che solo allora, in quel preciso attimo, è giunto a
compimento.
Chissà se si può sentire, il rumore del silenzio.
Il rumore di una crepa sotterranea che dà il via all’inferno.
Chissà se si può sentire, il rumore dell’attesa finita.
E poi un
click.
L’orologio in Piazza Duomo segna le 3:32.
E tutto ha inizio.
In pochi secondi, infiniti.
Centomila vite in balìa di 23 secondi di cieca violenza, di folle scuotimento.
Non è facile mettersi nei panni di chi lo ha vissuto. La paura difende, il menefreghismo difende, il non averlo visto difende la nostra coscienza, non consentendole di immergersi in un buio di tuono e tremore.
Eppure è possibile provare a immaginare.
È possibile chiudere gli occhi e, anche solo per un istante, provare a capire ciò che è stato.
Provare a vivere un brutto sogno con la consapevolezza di avere l’enorme privilegio negato agli aquilani: quello di poterlo allontanare subito dopo e tornare alla vita di sempre.
È possibile chiudere gli occhi e sentire la lunghezza degli attimi, gli strilli di mura contorte, lo sbriciolarsi di un intonaco, il rumore acuto di un portafoto che cade, il vuoto di una vertigine mentre si sprofonda, il peso di una parete che ostruisce il passaggio, il dolore di un ricordo perduto e di un corpo lacerato, il sapore dei calcinacci sulla lingua, lo strappo del sonno che si sveglia in un incubo.
L’orologio in Piazza Duomo segna le 3:32.
E tutto ha inizio.
In pochi secondi, infiniti.
Centomila vite in balìa di 23 secondi di cieca violenza, di folle scuotimento.
Non è facile mettersi nei panni di chi lo ha vissuto. La paura difende, il menefreghismo difende, il non averlo visto difende la nostra coscienza, non consentendole di immergersi in un buio di tuono e tremore.
Eppure è possibile provare a immaginare.
È possibile chiudere gli occhi e, anche solo per un istante, provare a capire ciò che è stato.
Provare a vivere un brutto sogno con la consapevolezza di avere l’enorme privilegio negato agli aquilani: quello di poterlo allontanare subito dopo e tornare alla vita di sempre.
È possibile chiudere gli occhi e sentire la lunghezza degli attimi, gli strilli di mura contorte, lo sbriciolarsi di un intonaco, il rumore acuto di un portafoto che cade, il vuoto di una vertigine mentre si sprofonda, il peso di una parete che ostruisce il passaggio, il dolore di un ricordo perduto e di un corpo lacerato, il sapore dei calcinacci sulla lingua, lo strappo del sonno che si sveglia in un incubo.
Uno.
Due.
Tre.
Quattro.
Cinque.
Sei.
Sette.
Otto.
Nove.
Dieci.
Undici.
Dodici.
Tredici.
Quattordici.
Quindici.
Sedici.
Diciassette.
Diciotto.
Diciannove.
Venti.
Ventuno.
Ventidue.
Ventitre.
Due.
Tre.
Quattro.
Cinque.
Sei.
Sette.
Otto.
Nove.
Dieci.
Undici.
Dodici.
Tredici.
Quattordici.
Quindici.
Sedici.
Diciassette.
Diciotto.
Diciannove.
Venti.
Ventuno.
Ventidue.
Ventitre.
E poi un
click.
E l’orologio segna le 3:33.
E l’orologio segna le 3:33.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.