Mi chiamo Samuele, avrei compiuto
nove anni fra pochi mesi se fossi ancora vivo. Alla vigilia di Ferragosto, sul
ponte di Genova, mentre ci stavamo recando in Sardegna dai miei nonni, un ponte
di cemento si è sbriciolato e come una bomba è esploso tra case, auto e
persone.
Io sono morto insieme a mamma e papà, ma loro
non mi hanno lasciato solo sotto quel viadotto, mi hanno abbracciato forte,
anzi fortissimo.
Gli addetti ai soccorsi hanno ritrovato la
nostra auto proprio sui binari della ferrovia stracolma
di bagagli. Tra un ombrellone avvolto ancora nel cellophane, secchielli e
palette, c'era anche un cellulare sul cruscotto che squillava senza sosta, era
mia nonna che tentava di mettersi in contatto con mamma, purtroppo senza
riuscirci.
Un amico del mio papà ha riconosciuto il mio
pallone coperto dalla polvere delle macerie e ha capito che il vuoto che si era
aperto sul ponte ci aveva inghiottito.
Certo è che noi eravamo felici, ma indifesi.
Mi hanno detto che i profitti ci buttano giù dai
ponti, che siamo carne da telegiornale, ma io sono ancora troppo piccolo e non
mi permetto di giudicare.
Prima di chiudere gli occhi mi sono raggomitolato
tra le braccia dei miei genitori per cercare conforto e ho pensato: “Ma è
davvero così brutto questo mondo che sto già per lasciare?” Poi mi sono sentito
sollevare e sulla nuvola da cui vi scrivo ho visto che la bellezza c’è ancora.
C’è bellezza nel camionista che ha cercato di salvarmi e nel vigile del fuoco
che mi ha trovato: è importante essere riconosciuti, avere un nome, significa
che sei esistito davvero!
E ora che non ci sono più vorrei che altri
innocenti non muoiano più sotto ponti di cartapesta, solo così non sarò morto
invano.
Mi chiamo Samuele, e ci sono ancora...